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Etnomusica 11 - Lo Spirito del Viaggio

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ETNOMUSICA 11: ‘LO SPIRITO DEL VIAGGIO’

“Molti viaggeranno, e la conoscenza ne sarà accresciuta” – scriveva il Profeta Daniele (circa 610 a.C.), mettendo in risalto alcune verità della ragione che valgono per ognuno di noi come per uno sdoppiamento della propria personalità, quel “dentro di me, fuori di me” che ci permette di confrontarci con ciò che ci sta attorno, e che ci procura quel ‘brivido di bellezza’ che a volte ci fa trasalire e che è all’origine dell’entusiasmo che releghiamo al ‘vivere insieme’. Quell’emozione momentanea e quindi passeggera che da un senso ai molti perché della vita, congiuntamente al nostro sistema neurobiologico, soggettivo, relazionale e culturale, che carica di importanti significati l’idea che abbiamo del ‘viaggio’. Aspetti questi che interagiscono e s’influenzano a vicenda, con la conseguenza che le emozioni costituiscono esperienze multiformi, anche conflittuali e ambigue, che attraversano tutto il nostro potenziale investigativo e che ci spingono alla crescita culturale e all’evoluzione conoscitiva. Andiamo, dunque, alla scoperta dei diversi significati del ‘viaggio’, abbandonandoci però a quello che ‘lo spirito’, in libertà d’azione, ci riserva, e cioè di quella musica che pur sentiamo ‘dentro e attorno a noi’, senza chiederci il perché del suo fluttuare nell’universo sonoro che ci circonda, e che infine ci permette di comprendere e utilizzare al meglio la nostra esistenza, tra ‘l’essere e il divenire’, di quei viaggiatori instancabili che in fondo noi siamo.

La più evidente determinazione che lo ‘spirito del viaggio’ possa attribuire al mondo circostante, è il suo offrirsi alla conoscenza senza porsi il problema della sua realtà. All’occorrenza le immagini del sogno e della fantasia vengono ordinate secondo il desiderio di evasione che sussiste in noi, che è al tempo stesso fantastico e soggettivo come realtà identica a quella oggettiva dell’esperienza più concreta. Come dire che “la coscienza sta al di là di questa opposizione, poiché non riconosce l’illusione come illusione, né la realtà come realtà, ma conosce solo il ‘contenuto’ della propria coscienza, che può essere tanto un dato reale quanto un’immagine fantastica” (G. Simmel). Posta in questa assenza di alternativa, l’apparenza irreale risulta così immediatamente intrecciata alla vita che verosimilmente concorre, a livello inconscio, a farci scoprire tanto l’uno quanto l’altra, senza distinzione tra l’ ‘essere e il divenire’ della nostra consapevolezza esperienziale in cui lo ‘spirito del viaggio’ si manifesta.

Ed ècco allungarsi davanti ai nostri occhi, la linea che segna il confine con tutto ciò che si trova oltre la nostra identità, che va oltre il finestrino del treno, dell'aereo, o l’oblò della nave su cui stiamo viaggiando, per addentrarsi in ciò che esiste al di là del tempo e dello spazio, verso lo ‘sconosciuto’ che, forse, cambierà il nostro destino. Un ‘forse’ illusorio quanto magico, che ci rivela il ‘mistero’ dell'imprevisto, dell'inatteso, dell'inspiegabile che è nel nostro potenziale psichico, quell’infinito e infinitamente vario che è nell’essere del mondo: “il fatto semplice e immediato di ciò che le cose sono; e in questo senso, che l’essere è l’universale comune a tutti i contenuti del mondo, per quanto essi siano differenti e opposti” (G. Simmel).

Un po’ come dire che: “per viaggiare basta esistere” (F. Pessoa); così come lo è lo stesso vivere, ma anche scrivere di sé o di quello che sta attorno al sé dal punto di vista della molteplicità, nella sua forma universale. “È necessario comprendere quale prodigioso lavoro ‘spirituale’ sia raccolto in questo concetto, giacché l’infinita ricchezza del mondo, la cui molteplicità nessuno può pensare in una sintesi reale che, la disparità dei suoi contenuti sono un solo disegno, sotto la forza di questo unico pensiero che tutto è: l’astratta significazione dell’essere” (G. Simmel).

Cos’è dunque ‘lo spirito del viaggio’ se non la spinta che ci assale quando sentiamo il desiderio di dare un senso alla nostra vita, quando aneliamo conoscere la natura del creato, e vogliamo esplorare il mistero nei suoi vari aspetti: la pienezza e il vuoto, l'amore e la morte, l'estasi e il tormento, l'identità e la frantumazione. Quando, mossi dallo ‘spirito’, ci stacchiamo dal conosciuto e magari sostiamo sulla soglia, in attesa di varcarla prima di partire alla scoperta di quello che c’é oltre e iniziare una nuova fase della nostra vita. Illusoriamente parlando, quando diamo inizio al nostro ‘viaggiare’ che ci porterà lontano, o forse vicinissimo, dipende dal distacco che siamo intenzionati a creare tra noi e l’altro, tra noi e la comunità d’appartenenza, tra noi e il territorio che ci ospita.

Lo stesso può dirsi se consideriamo la nostra mortalità, e ci muoviamo entro una delle fasi di ‘passaggio’ irreversibili della vita, dall'infanzia alla adolescenza, all'età adulta, alla maturità e alla vecchiaia, nell'esperienza della maternità-paternità, della nascita e della morte, della malattia e della convalescenza. È allora che più siamo mossi dallo ‘spirito’ ancestrale che ci accompagna, come per un incontro fatale nel momento della svolta, che è sempre un momento iniziatico, catartico, necessario per affrontare la nuova identità che ci aspetta dall’altra parte, e che ci permette di accedere a un nuovo livello di coscienza, indispensabile per spogliarsi dell'involucro angusto dell'Io che abbiamo fatto nostro. Ma anche di nuova conoscenza, riferita a quelle esperienze che hanno lo scopo di liberare l'individuo dalla realtà comunemente accettata, e che si collega alla dimensione più alta, iniziatica e spirituale del ‘viaggio’.

Strumento necessario, la ‘coscienza’, ci aiuta ad ampliare il valore iniziatico del processo di acculturazione cui andiamo incontro, dando luogo a quell’interazione individuale e sociale che, ‘volenti o nolenti’ diffondiamo nel lasciare qualcosa della nostra cultura e apprendere qualcosa dalla cultura degli altri che, da quel momento, porteremo sempre con noi, sotto forma di conoscenza e di esperienza. Alla radice di questo concetto c’è che la parte ‘conscia’ di noi, considera reale solo ciò che è materialmente oggettivo trascurando, di fatto, ciò che non appare o è frutto di illusione, che dicesi ingannevole; mentre l’altra parte, ‘inconscia’ di noi attribuisce senso indistintamente al sovrasensibile assoluto e al dato sensibile della nostra esperienza soggettiva. Ciò che più importa alla nostra tesi, è che il pensiero attuale, è giunto alla conclusione che l’esperienza (dato sensibile) non è toccata dall’opposizione tra ‘soggettivo’ e ‘oggettivo’, poiché, in quanto l’‘essere’ è in sé la vera e unica realtà comune ad entrambe le parti. Per quanto, ogni avvenimento, ogni esperienza, in quanto reciprocamente si differenziano e si oppongono, in verità esse ‘non sono’, giacché l’esistenza che le divide è frutto di una contrapposizione, non di una negazione insita nel loro ‘essere’.

Pertanto il mito, il simbolo, il rituale, l'arte del nostro ‘viaggiare’ sono mezzi che l'angusta visione mette in atto per soddisfare l'Io, per cui ogni cosa deve avere un senso, deve seguire una logica razionale prevedibile e riproducibile che l’egoistico desiderio del singolo rapporta al desiderio di continuità della vita, alla sicurezza, al successo, alla ricchezza, all'amore. Ma che si scontra con l'etica del ‘viaggio’, la quale esige che mettiamo da parte ogni richiesta di scientificità ed entriamo in contatto con l'essenza insondabile del ‘viaggiare’, ciò che ci rende vivi e autentici attraverso i ‘continenti’ misteriosi centrali dell’essenza della vita. È l'esperienza della vita in tutte le sue manifestazioni, positive o negative, che alla fine forgia il carattere e ci rende profondamente autentici, dimessi e rispettosi e anche capaci di amare.

È così che l'esperienza iniziatica della ‘soglia’ ci permette un mutamento di prospettiva, per cui occorre imparare a vedere e sentire in modo nuovo; che iniziamo a cercare il senso delle cose a un livello più profondo, a comprendere lo ‘spirito’ di vita che portiamo in noi, e per quanto possa sembrare paradossale, simbolico, metaforico, dobbiamo imparare a ragionare entro questa nuova dimensione come di una ‘potenzialità’ della nostra psiche, che sempre più spesso muove (inconsciamente) le nostre azioni e ne determina le conseguenze e i successi. A fronte di un processo speculativo delle nostre risorse ‘inconsce’ costituite dagli archetipi che abbiamo rimosso dalla nostra psiche, con tutto ciò che l'Io ha dovuto negare, nascondere, rimuovere, razionalizzare, nel tempo della sua crescita esperienziale.

Dunque, se dovessimo chiederci quale è lo ‘spirito del viaggio’, la risposta non può essere che: è il potenziale sconosciuto che ha come scopo quello di farci incontrare, riconoscere ed integrare tutte le parti mancanti di ciò che è ‘oltre’ noi, per infine ritrovarci uniti nel nostro Sè superiore. Ed è questa la vera gratificazione, il premio alla nostra trovata ‘identità’, per il coraggio di aver intrapreso il cammino e di avere consolidato il nostro ‘spirito’. Se è vero che l’istinto della ricerca infinita di noi stessi nasce da una ardente aspirazione, dalla sete di ‘assoluto’ lo ‘spirito del viaggio’ ci permette di definire ciò che ci manca, ciò a cui aneliamo e, quel misterioso qualcosa che pure c’è oltre la vita di tutti i giorni.

È ancora lo ‘spirito’ che ci chiama, che ci invita ad esplorare i misteri dell’ignoto. Il cercatore interiore è un ricercatore di significato, rappresentato simbolicamente nei miti più antichi, che non si arresta di fronte a nulla pur di trovare la ‘verità’ della nostra esistenza e il senso della vita umana, sapendo, che ciò che stiamo cercando è dentro di noi. Di fatto, spesso, viaggiamo per scoprire quella parte di noi pronta a cercare, non solo per noi stessi ma per tutta l’umanità, quella conoscenza che vogliamo condividere con gli altri, all’unico scopo di spezzare le dipendenze del quotidiano, e riempirci di ‘bellezza’, che è poi come andare alla ricerca di una vita o di un mondo migliori.

Idealismo, Curiosità, amore della conoscenza, ambizione, autonomia, libertà, essere fedele a una verità più profonda, realizzazione di un’utopia, impazienza e ostinazione nel cercare, amore per il proibito, vagare, sperimentare, studiare, conoscere cose nuove, non sono che la ricerca di conoscere noi stessi. Ne vale la scalata al successo, il diventare i migliori possibili, conoscere gli altri, l’avanzamento della ricerca spirituale, la conoscenza mistica delle grandi verità, la trasformazione, il raggiungere la meta, il miglior risultato possibile, il senso reale della nostra identità. L'ultima fase affrontata dallo ‘spirito del viaggio’ è la scoperta del proprio vero Sè, quello che in fondo (conscio o inconscio), vorremmo essere. Il Sè è il raggiungimento ultimo, l’espressione della completezza, il conseguimento di una certezza, l’approdo finale del processo di individuazione:

“Only with the unknowable are you thrilled
with the wonder of life and existence.
Suddenly a song is born in your heart...
a song that cannot be contained,
a song that starts overflowing,
a song that stars searching others." (OSHO: ‘Book of Wisdom’)

“Solo l'inconoscibile può entusiasmarci / chiedersi della vita e dell’esistenza. / Improvvisamente una canzone nasce nel Tuo cuore... / una canzone che non può essere contenuta, / una canzone che comincia a inondare, / una canzone che diventa protagonista percorrendo altri ... mondi"

È così che ‘lo spirito del viaggio’ si impossessa di noi, annullando quello che è l’iniziale ‘scopo’ che abbiamo in mente di raggiungere nel senso tradizionale del termine, e che va inteso come vicinanza, prossimità, aggregazione, legame, acquisizione di conoscenza di altri luoghi, di altri popoli ecc. Niente di tutto questo, a meno che non dobbiamo metterci in viaggio per altre ragioni, ciò che anima il viaggiatore è lo spirito d’avventura che di per sé è già fonte di prospettive diverse: di possibilità mai neppure sognate, progressi istruttivamente mai immaginati, conoscenze acquisite, motivo di indagini ignote e pericolose, tutte quelle cose che nella vita vale la pena procurarsi o affrontare intrepidamente.

“I vantaggi della conoscenza maturano solo per il vero viaggiatore, e non per il turista, una distinzione questa , vitale – scrive A. C. Grayling (*). Il viaggiatore è un individuo attivo che ha ben compreso l’osservazione di Samuel Johnson: se s’intende tornare a casa con la valigia piena di nuove conoscenze, occorre partire portandosi dietro le proprie. Il viaggiatore va per vedere, osservare, imparare, simpatizzare e comprendere. Il turista, al contrario, non è attivo, ma passivo: si aspetta di essere portato all’estero, accompagnato dall’aeroporto al suo albergo, intrattenuto con spettacoli e rinfreschi e protetto da ogni fastidio esterno. Prima di partire il turista non si dà da fare per imparare i rudimenti della lingua locale, ma sia affida a un inglese ben scandito o alla guida inclusa nel pacchetto offerto dall’agenzia di viaggi. Il viaggiatore cerca l’avventura, non ultima quella della mente; il turista si aspetta che gli accadano cose carine. A onor del vero, il turista che va all’estero si aspetta qualche differenza, ma il suo approccio è quello dello spettatore, e non dello studioso; e, a quel punto, potrebbe benissimo restarsene a casa davanti al televisore”.

Diversamente da quanto affermato, qualcuno ha detto che “prima di partire per un viaggio occorre spogliarsi del retaggio della propria cultura, dimenticare da dove si viene e dove si è diretti”, allo scopo di presentarsi ‘vergini’ all’incontro con l’ignoto, per poter accompagnare e lasciarsi guidare dagli eventi, per acquisire il coraggio necessario ad andare avanti. Ancor più se si è reduci da una qualche esperienza di chiusura o di isolamento, di insoddisfazione o eccesso di ambizione e di sacrificio, come possono esserlo il troppo perfezionismo e la superbia. E allora necessitiamo di fuggire, di liberarci dalla punizione o dalla prigione in cui siamo bloccati, e sentiamo il bisogno di riscattarci, di evadere, di superare lo scetticismo che non consola.

Un tempo gli scettici sul valore del ‘viaggio’ erano meno perspicaci di quello che siamo noi oggi, o forse erano più turisti che viaggiatori nel profondo del cuore. Così Orazio brontolava:

 

“Chi attraversa il mare cambia clima, ma non la propria anima” ( Orazio ‘Epistole’), osservazione falsa se applicata al viaggiatore, ma che può essere appropriata se riferita al turista.

 

Dello stesso avviso era Emerson: “I viaggi sono il paradiso degli stupidi; quando facciamo il nostro primo viaggio scopriamo che il luogo non conta nulla”, commento alquanto sorprendente se si pensa a quanto egli stesso avesse imparato viaggiando. Per quanto una parte di ragione ce l’abbia, il commento ci dice che tutto sta nella preparazione, a come ci disponiamo ‘spiritualmente’ al ‘viaggio’ che intendiamo intraprendere.

Thomas Jefferson, negli anni ’80 del XVIII sec., mentre era in viaggio in Europa, arrivò a due conclusioni: “in primo luogo che fosse meglio viaggiare da soli, perché in tal modo si riflette di più su ciò che si vede e, in secondo luogo, che i viaggi rendono più saggi, anche se meno felici”, cosa che potremmo anche condividere se si esclude che viaggiare significa anche andare incontro e incontrare qualcuno significa anche scambio e non solo di vedute. Tant’è che Goethe, suo grande contemporaneo, la pensava in modo opposto. Secondo lui “...un compagno di viaggio congeniale è un altro paio di occhi, un’altra sensibilità, un altro magazzino di informazioni preziose per interpretare ciò in cui ci s’imbatte” (‘Viaggio in Italia’). E a questo proposito ritengo gli si possa dare pienamente ragione.

La solitudine può rendere la presenza del proprio sé fin troppo incombente e ingombrante: Seneca aveva ragione quando osservava che:

 

“Per quanto lontani ci si spinga, è solo per rincontrare noi stessi, alla fine del viaggio” (‘Pensieri vari’).

 

Con un compagno, però, è possibile incontrare qualcosa di più di se stessi: quindi si può essere felici proprio mentre si diventa più saggi e, addirittura, nonostante ciò:


“In mezzo alla folla, mentre viaggiamo, e perfino ai banchetti, i nostri pensieri interiori ci offrono un luogo privato”. (Marco Fabio Quintiliano)

“Lascia i tuoi luoghi e cerca altri lidi,
o giovane, e ti si apriranno più vasti orizzonti” (Petronio ‘Frammenti’).

“Maggiore è il desiderio di conoscere le cose ignote che di riveder quelle note” (‘Pensieri vari’).

“Noi usiamo intraprendere lunghi viaggi e navigar vasti mari, per veder cose che, quando le abbiamo sotto i nostri occhi, trascuriamo” (Plinio ‘Lettere’)


Lo sapevano bene Darwin, Metraux, Loti, Stendhal, Rimbaud, Baudelaire, ed anche Lord Byron, Saint-Exupéry, Jules Verne, Agata Christie, Marcel Proust, John Ruskin, D. H. Lawrence, e ancor meglio lo sanno Karen Blixen, José Saramago, A. Borges, Bruce Chatwin, che hanno fatto dei loro viaggi ‘scientifici-letterari-poetici’ e non, motivo di speculazioni filosofiche e quant’altro:

“Gli uomini – disse il piccolo principe – si imbucano nei rapidi, ma non sanno più cosa cercano. Allora si agitano, e girano intorno a se stessi...” (A. De Saint-Exupéry ‘Il Piccolo Principe’).

Ben lo sapeva Arthur Rimbaud che ha saputo trasformare la sua ‘essenza’ in parole che oltrepassano la ‘forma’ del viaggio e ne fanno un percorso denso di suggestioni profonde:


“Le bateau ivre” (Il battello ebbro). (essai)
Nello sciabordio furioso delle maree,
L'altro inverno, più sordo che un cervello infantile,
Correvo! E le Penisole alla deriva
Mai subirono sconvolgimenti più trionfali.
. . .
Conosco i cieli che si squarciano in lampi e le trombe
E le risacche e le correnti: conosco le sere,
le Albe esaltate tali a un popolo di colombe,
E ho visto a volte ciò che umano ha creduto di vedere
. . .
Ho visto arcipelaghi siderali! E isole
dove i cieli deliranti sono aperti al vogatore:
È in queste notti senza fondo che tu dormi e ti esili,
Milioni di uccelli d'oro, oh futuro Vigore? …

In questa poesia il giovane Rimbaud immagina l'incredibile viaggio di un battello che si perde tra le acque impazzite di un oceano furioso. L'equipaggio viene disperso durante la tempesta e il battello incontra paesaggi incredibili, quasi onirici, caratterizzati da spettacoli fantasmagorici, trascendenti ogni nozione di tempo e spazio. Metaforicamente, il battello compie quel passaggio oltre la realtà, che Rimbaud ne "La lettre du voyant" (Lettera del Veggente) definisce "deragliamento dei sensi", come abbandono alla disposizione visionaria.

Sappiamo che il tema ‘viaggio’ è sempre stato frequentato da grandi scrittori e da autori notissimi, a formare idealmente un tracciato che “unendo i puntini” ha saputo creare nuovi luoghi ubicati, talvolta, nella nostra fantasia, eppure rileggere questo testo di Rimbaud mi fa sempre pensare a un grande quadro: ‘La zattera della Medusa’ (Le Radeau de la Méduse) un dipinto a olio su tela (491x716 cm) di Théodore Géricault, realizzata nel 1818-19 e conservato nel Museo del Louvre di Parigi; che si riaffaccia davanti agli occhi, quasi facesse parte di una pinacoteca personale che giace nel mio subconscio, quasi fosse un ‘topos’ letterario o forse, ‘ricordo visivo’, che riscontro in altre opere artistico - letterarie e collego con suoi diversi significati.

A questo proposito mi avvalgo qui dell’esperienza letteraria di Lilli Monfregola (*) che, nel suo “Rimbaud e la macchina del tempo”, ha dato una possibile risposta alla domanda se può intendersi nello ‘spirito del viaggio’ il viaggio inteso come ricerca interiore per trovare risposte al mistero del tempo.

“Il tempo – scrive - come si percepisce il tempo quando si viaggia? Ha lo stesso scorrere delle lancette sui quadranti? Si sente lo stesso lacerante scorrere dei secondi e dei minuti e la stessa patetica sensazione d’incapacità a fermarle? Oppure è una lunga, coinvolgente, ipnotica discesa verso il misterioso quadrante del “tempo sospeso”? Il corpo e la mente si rinnovano, non sono più sottoposti a quella specie di strappo del tessuto muscolare a causa della irreversibilità degli eventi. Scompaiono lo stress, le (eventuali) lacerazioni d’amore, le rughe … In quell’attimo compreso tra la partenza e il ritorno si vivono momenti quasi eterni.

Forse pensava di trovarlo anche il tormentato, disilluso Rimbaud nel suo periodo africano, almeno non dopo il suo arrivo ad Harar, in Etiopia. Sì, perché dopo, l’agonia del tempo si è ripresentata, tale e quale a prima, contravvenendo alla regola del viaggiatore che vuole, appunto, un tempo dilatato e sognante. Il bellissimo, crudele, infernale, puro, estatico, geniale e ribelle poeta francese, per la seconda volta, si ritrovò vinto dai macigni della realtà. Lo raggiunsero persino lì, in Africa, nel suo viaggio memorabile in cui aveva rinnegato tutto, persino la poesia, forse per ritrovare un se stesso che non era più nemmeno «L’io è un altro».”

Si legge questo nelle sue “Lettere dall’Africa”, nel suadente, esotico libro con illustrazioni di Ugo Pratt, edito dalla casa editrice Nuages di Milano:

Harar, 6 maggio 1883, (Rimbaud alla famiglia)
...“Ma chi può sapere quanto dureranno i miei giorni fra queste montagne? E posso anche sparire, in mezzo a queste tribù, senza che nessuno ne sappia niente”…
… “Mi parlate delle notizie politiche. Se sapete quanto mi è indifferente tutto questo! Da più di due anni non ho aperto un giornale. Ormai, queste discussioni mi sono incomprensibili. Come i mussulmani, so che succede quel che succede, ed è tutto.” …
C’è solo una cosa che a noi lettori viaggiatori tra i viaggi dell’arte e dello spirito può salvarci dallo sprofondare in quest’abisso trasognato e disperato, ed è lo scoprire l’ultimo istante prima dell’arrivo, in questo caso l’ultima lettera di Rimbaud, l’approdo, l’oblio, dopo la partenza esasperata, l’abbrivio, prima del ritorno del tempo conosciuto, dei secondi, dei minuti, delle ore …

Così scrisse Rimbaud quando, con un ginocchio in cancrena qualche giorno prima della morte:

Aden, 30 aprile (Rimbaud alla madre).
“... Ho voglia di farmi portare fino a un piroscafo e venire a farmi curare in Francia, il viaggio mi aiuterebbe a far passare un po’ il tempo. In Francia, le cure mediche e le medicine sono a buon prezzo, e l’aria è buona. Dunque è assai probabile che io venga. I piroscafi per la Francia, in questo momento, sono purtroppo sempre pieni, perché in questo periodo dell’anno tutti rientrano dalle colonie. E sono un povero infermo che occorre trasportare con grandi precauzioni! Insomma prenderò una decisione entro otto giorni.
Ma non spaventatevi troppo per tutto questo, giorni migliori verranno. Però che triste ricompensa, a tanto lavoro, a tante privazioni e fatiche! Poveri noi! Quant’è miserabile la nostra vita! Vi saluto di cuore.
Rimbaud
p.s. quanto alle calze, sono inutili. Le rivenderò a qualcuno.”

Il viaggio dunque come "topos letterario" che conduce a una nuova visione del mondo. Ma tale viaggio comporta il rischio dell'annullamento dell'io nella libertà sconfinata della natura, nell'oceano infuriato e profondo che rappresenta l'inconscio umano, onde per cui, l'evasione dell'io porta a dover scendere al fondo dell'ignoto e può trasformarsi anche in autodistruzione. Cosa questa di cui dobbiamo essere consapevoli o, almeno, preoccuparci quando affrontiamo da ‘viaggiatori dell’inconscio’ le vie misteriose dell’introspezione, o dell’annullamento dell’io, facendo di noi stessi lo strumento di indagine del mistero della nostra esistenza. Un altro ‘straordinario esempio’ ci è dato da Charles Baudelaire in ‘Il Viaggio’ del cui testo riporto l’inizio qui sotto nella traduzione di Gianni Celati:

“Il viaggio”
I
Per il bimbo innamorato di carte e di stampe
l’universo è in tutto uguale a un vasto appetito.
Com’è grande il mondo alla luce delle lampe,
e agli occhi del ricordo com’è rattrappito!
Un bel mattino si parte, le menti infiammate,
il cuore pieno di livori e struggimenti amari,
e si segue il ritmo dei marosi alle murate
che culla il nostro infinito sul finito dei mari.
Lieti alcuni di fuggire da una patria trista,
altri con l’orrore dei natali ingloriosi,
altri ancora, astrologhi stregati alla vista
di tiranne Circi dai vezzi pericolosi,
per non farsi tramutare in bestie, con fiducia
s’inebriano di spazi, luce e cieli infuocati,
e il gelo che li morde e il caldo che li brucia
cancellano infine i baci che li han marchiati.
Ma il vero viaggiatore è chi parte per partire,
chi dice soltanto: “Andiamo” e non sa perché
come gli aerostati, a cuor leggero, senza mire,
e accetta il sortilegio che incombe su di sé.
Sono in forma di nuvole i suoi desideri,
e tanto il soldato sogna il fucile come
costui sogna ignoti e mutevoli piaceri,
voluttà di cui la mente non sa il nome.


Ed ecco un altro modo di interpretare quello che si considera il 'viaggiare'. E' tratto da uno spettacolo teatrale su progetto artistico di A. Genovese e G. Panozzo: “Transiti” – (da ‘I Viaggi di J.L.Borges’), nato dall’esigenza di dare uno sbocco immediato ad un modo di fare teatro, sperimentato ormai da diversi anni, basato sulla convinzione che musica e parola possano assumere delle valenze diverse agendo insieme all’interno della rappresentazione, senza diventare in nessun modo prevalenti l’una nei confronti dell’altra. Le musiche originali, composte per l’occasione, erano eseguite dal vivo a voler sottolineare l’esclusiva appartenenza a questo spettacolo e per esaltarne le caratteristiche rappresentative:

“Lo spettacolo è tratto dall’opera di J.L. Borges e, specificatamente, dai racconti che hanno per tema il viaggio o che nascono da suggestioni derivanti da viaggi. Viaggi realmente compiuti dall’autore in tutto il mondo e dai quali scaturiscono racconti ricchi di mistero, passione e dolore, cultura ed intellettualità. Lo specchio, il doppio, la morte, la relatività del tempo e dello spazio, la non definibilità dei valori etici, questi sono alcuni degli argomenti che si snodano in questa analisi, vocale e musicale dell’opera di Borges. Argomenti in qualche misura “alti”, resi però pienamente fruibili da un’ipotesi artistica e progettuale che fonde il suono della musica con quello della parola, ritmo ed immagine, producendo un risultato dall’impatto immediato e piacevolissimo. Assistere allo spettacolo diventa, quindi, un viaggio verso il nostro inconscio, ma, soprattutto, verso i nostri dubbi e le nostre passioni. In questo itinerario letterario, la parola e la musica riescono ad evocare luoghi e situazioni all’interno delle quali ci ritroviamo con sembianze diverse, a vivere vite ed esperienze che collimano perfettamente con le nostre e con le quali, misteriosamente, ci identifichiamo allo stesso modo di quando vediamo noi stessi riflessi in uno specchio”.

E se viaggiare fosse un andare ‘alla ricerca del tempo perduto’? Ammetto di non aver pensato a Proust in tal senso, pur tuttavia ‘La Recherche’ va considerata anche sotto questo aspetto, come di un ‘viaggio’ tout court nella società mitteleuropea del tempo, che amava spostarsi da un paese all’altro in cerca di tutto e, soprattutto, di se stessa. Ma, al dunque, gli esempi, potrebbero essere infiniti: da Louis Ferdinand Céline di “Viaggio al termine della notte”, a Giacomo Leopardi di “Canto di un pastore errante dell’Asia”, o perché no di quell’ ‘Infinito’ cui tutti, viaggiatori e poeti, dobbiamo qualcosa e ché rappresenta in sé l’essenza de ‘lo spirito del viaggio’; quell’andare oltre che pur ci è dato, se non nella realtà del movimento, di certo nello spaziare più ampio del pensiero umano:

"Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovraumani
silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensiero mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: E mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare". ( Giacomo Leopardi, 1819 )

Lo stesso potremmo dire di J. R. R. Tolkien de ‘Il signore degli anelli’, e dell’ultimo (ma non ultimo) ‘Harry Potter’ di J. K. Rowling; mentre voi direste che siamo approdati nella fiaba. E non è la fiaba un costante ‘viaggiare’ nel sogno e nello spirito? E allora gli esempi potrebbero non finire mai, mentre invece non ancora entriamo nell’estensione che è ‘viaggiare’ anche il puro ‘meditare’, quell’incontro magico che avvicina il ‘pensiero visivo’ alla realtà del ‘l’arte del viaggio’. Quel meditare che non significa distaccarsi dal mondo, al contrario, vuol dire avvicinarsi al mondo per tentare di comprenderlo, di amarlo, di cambiarlo, per cui la meditazione è un mezzo accessibile a tutti per coltivare la serenità e apprezzare il sapore della felicità.

È un po’ quanto incorse nella vita di Tiziano Terzani, giornalista e scrittore, famoso come corrispondente per i suoi reportage narrativi e saggi e per una certa ‘filosofia del viaggiare’ riferita allo stile di vita che lo condusse in luoghi diversi del mondo, e lo ha insignito di molti riconoscimenti anche internazionali. Autore inoltre di libri di successo, ha ripristinato in letteratura, un certo modello ‘diaristico’ ricco di notizie e informazioni utili per conoscere, non tanto la geografia dei luoghi visitati, quanto lo ‘spirito’ che li anima. Tra i più famosi della sua produzione, cito qui: “La porta proibita”, Milano, Longanesi, 1984; “Un indovino mi disse”, Milano, Longanesi, 1995; “In Asia”, Milano, Longanesi, 1998; e l’ultimo e forse il più impegnativo “Un altro giro di giostra” (Milano, Longanesi, 2004), dal quale traggo quanto segue:

“Siamo a Benares e camminiamo, reduci dal bazar, condotti dal tassista maomettano, grosso, intelligente e veloce come un europeo, verso il tassì. Camminiamo per una larga strada del centro, con le case a due passi, gonfie come pianole, tutte di legno, con gli angoli smussati rotondeggianti, i portichetti slabbrati e dipinti di colori teneri. Sotto un portichetto dipinto di fresco di verdognolo, nella confusione di tassì, cenci e vacche, sentiamo il suono insistente e primitivo di una musica. La faccia del tassista ci promette qualcosa di buono: perciò ci accostiamo, e ci uniamo a una piccola ressa, addossata a una finestrella, in un vicolo perpendicolare alla strada e alla loggetta verde. Attraverso la finestrella, vediamo una saletta non molto grande e completamente disadorna, ma non sporca: in fila sono accucciati per terra degli indù, sei o sette file di una decina di persone l'una. Tutti cantano con gran fervore. Gli strumenti musicali che accompagnano quel coro, sono pochi. Prevale un tamburo lungo e stretto battuto con grande furore dal musicante, che pare stacchi, vorticosamente, le mani dalla pelle del tamburo, come questa fosse spalmata di colla. I colpi sono ordinati, ma precipitosi e drammatici. Il canto della folla accucciata, benché elementare, com’è la melodia indiana, ha qualcosa di giocondo: ricorda i canti delle nostre osterie. Sotto la finestra, in un angolo della stanza, c'è un parapetto, dipinto di giallo, che circonda la cappella, col solito dio, l'ingam, ossia il sesso, tra le figure in atteggiamenti simbolici: arte folcloristica e moderna.

Saltato fuori da chissà dove, ecco che uno strano essere comincia a ballare davanti al recinto del piccolo altare, sui tappeto stinto e strappato. È un nano, maschio, ben adulto e peloso, ma vestito da nana: una grande sottana gialla e un corpetto verde; braccialetti ai polsi e alle caviglie: collane e orecchini luccicanti. Tra le dita agita dei sistri, che si uniscono al suono degli altri strumenti, ossessivi. All'assordante ritmo dei suoi sistri, il nano balla vorticosamente, ripetendo sempre gli stessi gesti: rotea su se stesso, facendo fare alla gonna una specie di ruota, si ferma, si rigira, va verso la folla, fa l'atto di prendere qualcosa sul palmo della mano aperto e teso, e va a gettare questo qualcosa verso l'altare. Ripete questi gesti, senza posa, coi sistri che ronzano e ringhiano come un alveare di api furenti. L'espressione del nano ha qualcosa di osceno, di maligno. Tra tutte quelle facce dolci di indiani, è l'unico a sapere cos'è la bruttezza. Lo sa in modo infantile e bestiale, chissà per quale ragione: e compie la sua danza sacra e antica, come facendone la caricatura, deturpandola con la sua inspiegabile perfida volgarità.

Non fu il solo caso. Anche a Gwalior, una cittadina tra Delhi e Benares, potei notare qualcosa di analogo. Passavamo per la piazza centrale della città, stupiti del suo aspetto moderno; una gran Porta, due tre palazzotti rossi e bianchi, una grossa aiuola nel centro. Però dappertutto, in mezzo al traffico, vacche e capre, grige di sporcizia. Tra le vacche e le capre, su un marciapiede, era disteso un sacco, grigio di sporcizia, e, sotto, un uomo, con una gran capigliatura nera che fuorusciva dagli orli del sacco. Un gruppo di gente stava intorno a lui, in ginocchio, venerandolo. Prima di andarsene, qualcuno che era stato lì in raccoglimento devoto, gli baciava o gli sfiorava i piedi con la mano. E lui, l'adorato, fermo sotto il suo straccio immondo, con tutti quegli immondi capelli sciolti sul marciapiede. Quando uno, paralizzato di venerazione, gli si accostò offrendogli una sigaretta accesa, l'adorato rifiutò, muto, limitandosi a scuotere follemente un piede, quasi desse piccoli vorticosi calci isterici all'intero mondo.

A Kajurao, il giorno dopo, abbiamo avuto modo di vedere un altro di questi santoni. Kajurao è il posto più bello dell'India, anzi forse l'unico posto che si può dire veramente bello, nel senso «occidentale» di questa parola. Un immenso prato-giardino di gusto inglese, verde, d'una tenerezza struggente, con delle buganvillee sparse a grossi cespugli rotondi, davanti a ognuno dei quali l'occhio si sarebbe perduto a goderne il rosso paradisiaco per ore intere. File di giovinette, col sari, tutte inanellate, lavoravano il prato: e, più in là, file di fanciulli, accucciati sull'erba, e, più in là ancora, giovani che portavano, appesi all'estremità di una pertica, dei secchi d'acqua: tutto in una pace di infinita primavera. E sparsi in questo prato, i piccoli templi: che sono quanto di più sublime si possa guardare in India.

 

Ai margini del prato, c'era una casetta, una catapecchia non lurida, di mattoni: un fuoco acceso dentro, e qualche suppellettile. Intorno, qualcuno stava trafficando, come preso dalle sue faccende. Era un uomo sui quarant'anni, con una folta barba nera e una folta zazzera nera. Il suo aspetto era immediatamente antipatico. Osservandolo bene, infatti, si vedeva che non stava affatto sfaccendando, occupato a accendersi il fuoco, a cucinarsi i fagioli o che so io: ma, con la stessa attenzione, accuratezza e albagia, di chi fa un lavoro ritenuto indispensabile, stava accudendo a un cerimoniale sacro. Girava come un matto intorno alla catapecchia, si fermava, toccava degli oggetti, faceva dei gesti con le mani, si chinava a terra. Lo lasciammo lì: chiuso nella sua maniaca concentrazione, in un cerchio infinito di tolleranza. Non riuscivamo a staccarci da Kajurao: c'erano sei templi, piccoli e stupendi, e intorno a ognuno indugiavamo almeno per un'ora, seduti sui suoi scalini, o sul prato sottostante, a goderci quella insperata pace, potentemente mite. I templi davanti a noi, coi loro due corpi (uno grande, con nell'interno l'ingam, l'altro, di fronte, più piccolo, poco più che una tettoia a coprire la stupenda vacca di pietra rivolta all'ingam) nell'oro del sole, erano di una bellezza inesauribile. Non cose di pietra, parevano: ma d'un materiale quasi commestibile, più che prezioso, aereo.

È un fatto, comunque, che in India l'atmosfera è favorevole alla religiosità, come dicono anche i referti più banali. Ma a me non risulta che gli indiani siano molto occupati da seri problemi religiosi. Certe loro forme di religiosità sono coatte, tipicamente medioevali: alienazioni dovute all'orrenda situazione economica e igienica del paese, vere e proprie nevrosi mistiche, che ricordano quelle europee, appunto, del medioevo, che possono colpire individui o intere comunità. Ma più che una religiosità specifica (quella che dà i fenomeni mistici o la potenza clericale) ho osservato tra gli indiani una religiosità generica e diffusa: un prodotto medio della religione. La non violenza, insomma, la mitezza, la bontà degli indù. Essi hanno forse perso contatto con le fonti dirette della loro religione (che è evidentemente una religione degenerata) ma continuano a esserne dei frutti viventi. Così la loro religione, che è la più astratta e filosofica del mondo, in teoria, è, ora, in realtà, una religione totalmente pratica: un modo di vivere. Si giunge addirittura a una specie di paradosso: gli indiani, astratti e filosofici alle origini, sono attualmente un popolo pratico (sia pure di una pratica che serve a vivere in una situazione umana assurda), mentre i cinesi, pratici e empirici alle origini, sono attualmente un popolo estremamente ideologico e dogmatico (pur risolvendo praticamente una situazione umana che pareva irrisolvibile). Così, in India, ora, più che alla manutenzione di una religione, l'atmosfera è propizia a qualsiasi spirito religioso pratico.

A Calcutta, ci sono sessantamila lebbrosi, e vari milioni in tutta l'India. E’ una delle tante cose orribili di questa nazione, davanti a cui si è del tutto impotenti: in certi momenti ho provato dei veri impulsi di odio contro Nehru e i suoi cento collaboratori intellettuali educati a Cambridge: ma devo dire che ero ingiusto, perché veramente bisogna rendersi conto che c'è ben poco da fare in quella situazione. A Calcutta Moravia, la Morante e io siamo andati a conoscere Suor Teresa, (una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e l'occhio dolce, che, dove guarda, «vede»). Una suora che si è dedicata ai lebbrosi e che nei tratti ha impressa la bontà vera, la bontà senza aloni sentimentali, senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica.” [...]. Suor Teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo tipo possono servire, perché cominciano dal nulla. La lebbra, vista da Calcutta, ha un orizzonte di sessantamila lebbrosi, vista da Delhi ha un orizzonte infinito. Suor Teresa vive in una casetta non lontana dal centro della città, in uno sfatto vialone, roso dai monsoni e da una miseria che toglie il fiato. Con lei ci sono altre cinque, sei sorelle, che l'aiutano a dirigere l'organizzazione di ricerca e di cura dei lebbrosi, e, soprattutto, di assistenza alla loro morte: esse hanno un piccolo ospedale dove i lebbrosi vengono raccolti a morire.”

Quanti altri nomi andrebbero qui citati, e non si finirebbe mai, tuttavia nei miei ricordi c’è uno scrittore, José María Arguedas Altamirano (Andahuaylas, 1911 – morto suicida a Lima nel 1969), un nome da ricordare, un grande scrittore sudamericano che va assolutamente letto per chi volesse intraprendere un viaggio in Perù. Vissuto negli anni decisivi della sua infanzia a stretto contatto con la popolazione india, scoprì la cultura indigena e imparò il quechua, lingua che utilizzò per tutta la vita e che affiancò all'uso del castigliano. Era figlio di un avvocato, che per ragioni politiche e professionali, si vide obbligato a viaggiare con frequenza attraverso il territorio delle Ande. Il futuro scrittore, che quasi sempre accompagnava il padre nei suoi viaggi, allargò i suoi orizzonti culturali ed entrò a contatto con la tradizione india. Nel 1931 entrò nella facoltà di lettere dell'"Universidad Mayor de San Marcos" di Lima.

L'opera di Arguedas abbraccia vari campi; troviamo, infatti, romanzi, poesie e studi letterari, traduzioni dal quechua allo spagnolo e viceversa. È possibile intravedere sempre una preoccupazione costante per la lingua, i suoi usi e la relazione tra il quechua e il castigliano. La sua prima opera, una serie di canti, venne pubblicata nel 1935 con il titolo "Aqua", nel 1941 scrisse la sua prima novella intitolata "Yawar Fiesta". Le sue opere mature comprendono "I fiumi profondi" del 1974 che è forse il suo capolavoro, "Tutte le stirpi" del 1964; “Il Sexto”, 1976, “Festa di sangue” e “Musica, danza e riti degli indios del Perù” 1991, tutti pubblicati in Italia da Einaudi.

Voglio inoltre dare qui un suggerimento a quanti, appassionati di viaggi e non, che mi leggono su La Recherche, dell'esistenza di una “Libreria del Viaggiatore” in Via del Pellegrino, 78 a Roma, a due passi da Campo dè Fiori. Un piccolo spazio in cui attraverso i libri si aprono porte infinite. Era questa l’ambizione del signor Bruno Bruschin, quando, nel 1991 ha dato avvio alla sua Libreria, e non c’è dubbio che c’è riuscito, grazie anche alla cortesia che usa nel consigliare chi entra nella sua libreria. E infatti, indica una targa all’ingresso che, in questo spazio non si trovano solo libri ma anche consulenze turistiche. L’idea è precisa, il pubblico vasto. C’è chi passa per trovare qualche informazione su una meta non contemplata dalle guide tradizionali e c’è chi fa un salto una volta al mese alla ricerca di un compagno di viaggio di carta. I libri qui non scompaiono se non vengono venduti dopo tre mesi. La frenesia rimane fuori della porta.

Basta entrare per accorgersene. In uno spazio piccolo, in penombra, su scaffali che coprono interamente le pareti sono stipati quanti libri fisicamente ce ne possono stare. Una copia per libro. Sono divisi per aree geografiche (per nazioni o per continenti). Entrando sulla destra si trova la sezione “Viaggi in Italia” che esplora la penisola attraverso le parole di viaggiatori illustri, allargandosi anche nei secoli e mettendo in mostra accanto a opere del Belli, quelle di Leopardi e di Montaigne. Al di fuori dell’Europa, accanto alle guide e ai libri che parlano di viaggio, si aggiungono opere di letteratura locale, anche in lingua originale. Ci sono mappe e guide turistiche per qualsiasi destinazione, ma anche libri che affrontano, in diversi modi, la tematica del viaggio: diari e resoconti, libri umoristici sui vari popoli, classici stranieri (molti in lingua originale) e italiani sui protagonisti di Grand Tour e esplorazioni. E poi guide tradizionali, libri fotografici, dizionari tascabili, mappe di ogni angolo della Terra, carte da trekking, taccuini del viaggiatore.

Ci si può lasciare avvolgere dall’atmosfera, girare e sfogliare tranquillamente, senza spingersi necessariamente a comprare qualcosa, (sono certo che troverete qualcosa di cui compiacervi, compratelo!). La Libreria del viaggiatore è aperta tutti i giorni dalle 10:00 alle 14:00 e dalle 16:00 alle 20:00, tranne la domenica e il lunedì. Molti sono anche i frequentatori del blog dove è facile incontrarsi, tra gli scaffali pieni di libri, musica, guide, carte geografiche, cd; un click e il ‘viaggio’ è servito: www.libreriadelviaggiatore.com .

Ma eccoci giunti alla conclusione del ‘viaggio’ intrapreso in queste pagine. Ci siamo smarriti e ritrovati, abbiamo perso coincidenze ma abbiamo trovato nuovi mezzi di trasporto, abbiamo incontrato molte persone, buone e cattive, abbiamo superato momenti difficili e abbiamo gioito di panorami sorprendenti: abbiamo sperimentato i vari livelli della nostra coscienza e tutti i pezzi della nostra psiche si sono ricomposti in unità. Infine però siamo tornati a casa, ci guardiamo indietro e sappiamo chi siamo, abbiamo acquisito la maturità, il potere materiale e spirituale della conoscenza, senza esserci lasciati contaminare dall'ego o dall’esperienza di un ‘viaggio’ che ancora ci spetta di fare, nella misura in cui siamo fedeli al nostro ‘spirito’ interiore, nel desiderio di scoprire le zone inesplorate della nostra ‘vita’ e del nostro Sé. Ma adesso permettetemi di salutarvi, vi lascio per partire per un altro lungo viaggio di cui leggerete in seguito.

Ovviamente è solo un arrivederci, puntualmente vi aspetto al prossimo e sempre interessante ‘reportage narrativo' che intendo proporvi.

 

 

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